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Raccontini

IL DIROTTATORE


Arturo era calmo e non si aspettava l'avventura che lo avrebbe coinvolto da lì a poco: erano anni che prestava servizio su quella linea ed aveva sempre avuto il controllo della situazione, nonostante tutte le intemperie. Anche stavolta era lui ai comandi del mostro d'acciaio. Sapeva che se la sarebbe cavata benissimo, come al solito.
Giacomo era un passeggero estremamente annoiato, od almeno così sembrava: leggeva il giornale gettando ogni tanto un'occhiata distratta al paesaggio che scorreva all'esterno del finestrino.
Tutto sommato normale, direte voi. E invece no! Ad un tratto Giacomo si alzò: un mitra era apparso quasi per incanto tra le sue mani. Qualcuno fece per urlare. "Silenzio!" intimò il dirottatore e si diresse verso la cabina. Impegnato ai comandi, Arturo non s'era accorto di nulla, ed il freddo della canna alla tempia lo colse di sorpresa. "Dirotta al più vicino aeroporto!"
Arturo pensò potesse trattarsi di uno scherzo, ma l'arma faceva poca voglia di mettersi a ridere. Decise di ubbidire e di dirigersi verso l'aeroporto più prossimo. "Ci arriveremo in una quindicina di minuti", avvertì.
Si lasciò così travolgere dai pensieri: eh, già, aveva sentito di parecchi piloti alle prese con i dirottatori, ciononostante non avrebbe mai pensato che una sorte simile sarebbe toccata pure a lui. In tante ore di servizio gli era capitato di aver a che fare con i temporali e con le loro turbolenze, i fulmini, i problemi del gelo, ecc. ma i dirottatori proprio non li aveva mai considerati (neanche quando pioveva a... dirotto): ed ora ne aveva lì accanto uno. Che fare?
"Mi raccomando, non fare scherzi!" Queste parole lo scossero dai suoi pensieri. Già, che scherzi poteva fare? Non aveva la possibilità di chiamare aiuto via radio od altro: poteva solamente ubbidire. A meno che...
L'idea che gli balenò era rischiosa, ma decise di tentare ugualmente: una rapida manovra con i comandi ed il grosso pachiderma ebbe un sussulto. Ciò bastò perché il dirottatore, preso di sorpresa, perdesse l'equilibrio e cadesse a terra.
Arturo ne approfittò per abbandonare i comandi e saltargli addosso. Con un calcio ben assestato allontanò l'arma caduta a terra ed i due cominciarono a darsele di santa ragione.
Ad un certo punto si udì uno schianto, il sobbalzo fece cadere i passeggeri dai sedili, ci furono scene di panico. Poi più nulla.
Arturo riprese il controllo di se stesso e cominciò a ricomporsi la divisa: ormai il dirottatore era stato fermato dai passeggeri, bastava avvisare la polizia. Spense il motore e scese a valutare i danni: poco male, quel tronco di quercia aveva solo preso di striscio la fiancata, bloccando però il veicolo. Ciò impedì un incidente ben più grave.
Arturo continuò a ripensare all'accaduto: che strano, dirottare un autobus di linea... boh!

 

LE GUERRE PUBICHE

Anno 1971. La professoressa di storia la chiamavamo semplicemente prof ed il professore di matematica professò. Non gradivano ma nemmeno dava loro fastidio. Invece il bidello s’incavolava a morte se lo chiamavamo bidè. Comunque sia quel giorno me ne stavo mezzo stravaccato sul banco con l’aria sicuramente annoiata mentre entrava nell’aula la prof. Mi ricomposi subito, cercando di assumere un’aria più idonea, qualcosa che almeno assomigliasse a quella di uno studente, ma era dura. La prof era sui 25 anni, al suo primo anno d’insegnamento. Piccolina e rotonda, camminava invece di rotolare in quanto un paio di stivali che immagino non togliesse mai le davano la rigidità necessaria a mantenersi in posizione eretta. Una volta entrata si posizionò davanti alla cattedra. Il brusio della classe cessò di colpo. Un aeroplanino di carta ritardatario finì il suo volo spiaccicandosi sul muro in fondo all’aula, per poi ricadere a terra.
Facendo finta di niente la prof si girò con il suo caratteristico scricchiolio di tacchi alti almeno 12 cm. Si avvicinò alla lavagna, una tavola di ardesia larga almeno 2 metri ed alta un metro e 10 appesa al muro con due grossi ganci. Spingendosi in alto, tanto da sembrare dover spiccare il volo, tutta tesa e protesa verso l’alto riuscì a scrivere, nella parte inferiore della lavagna, appena sopra il legno della cornice, la scritta in maiuscolo:

I ROMANI NEL VENETO

Mentre sottolineava la scritta il gesso si spezzò. Una parte cadde a terra, l’altra continuò la sua corsa sulla lavagna, completando la sottolineatura ed emettendo il caratteristico rumore che fece schizzare su ed impietrire tutti gli studenti. Al termine della  sottolineatura probabilmente era rimasta sulla lavagna oltre alla traccia bianca del gesso anche una mezza unghia della prof, che a questo punto si girò verso di noi, con la sua faccia tonda come il corpo, ma si distingueva da quest’ultimo per la mancanza di stivali. Sorrideva.
“Oggi continuiamo la lezione precedente sui romani e proseguiamo con la venuta dei romani nel Veneto, anzi, prima di continuare sarà il caso che facciamo qualche interrogazione in maniera che possiamo vedere se avete capito.”
“Continuiamo, proseguiamo, facciamo, possiamo vedere – ripetevo tra me e me – altro che plurale maiestatis, sarebbe meglio il singolare poveratis.”
Avevo ancora il brivido del gesso che correva lungo la schiena e se ne stava aggiungendo un altro, quello premonitore dell’interrogazione. Cominciavo a pensare che il “poveratis” sarei stato io se fossi stato interrogato.
Mentre la prof si guardava attorno alla ricerca della classica faccia da interrogazione io cercavo di tenere la mia testa allineata a quella del ragazzo del banco davanti al mio, in modo da sparire agli occhi della prof. Speranza vana: all’improvviso il ragazzo starnutì e mentre si abbassava a prendere il fazzoletto mi lasciò scoperto, proprio mentre la prof si girava istintivamente nella direzione dello starnuto, cioè nella mia! Lo sapevo, avevo la scritta “interrogami” stampata in faccia, e per ironia della sorte l’agitazione mi aveva mandato il sangue alla testa, per cui la scritta appariva pure in rosso lampeggiante al ritmo delle mie pulsazioni cardiache.
“Ah, ecco, giusto, interroghiamo Neddi.”
Per un microsecondo sperai che ci fossero almeno venti miei omonimi nell’aula, ma subito dopo realizzai che non ce n’era uno nemmeno in tutt’Italia, figurati nell’aula, per cui toccava per forza a me.
Mi trascinai in piedi, ormai sconsolato e rassegnato, e mi avvicinai alla “zona interrogazione”, cioè presi posto davanti alla lavagna.
“La volta scorsa abbiamo visto che nel secondo secolo avanti Cristo…”
Non l’ascoltavo, ero troppo occupato a tentare di mimetizzarmi tra lo sciame di formiche che usciva da una crepa nel muro.
“…nel secondo secolo, dicevo” - e qui una pausa, poi riprese calcando bene le parole. Sulla mia faccia probabilmente era apparsa anche la scritta “help”, lampeggiante pure essa.
“…nel secondo secolo c’erano le guerre puniche… mi sai dire qualcosa delle guerre puniche?”
Io non sapevo nulla nemmeno delle guerre pudiche, quelle che facevano tutti nudi con la foglia di fico Adamo ed Eva, figuriamoci delle guerre puniche! In ogni caso con la mente ero lontano mille miglia dall’argomento trattato e sicuramente nemmeno queste mille miglia saranno state miglia romane. Visto che il mimetismo con le formiche non era riuscito cercai un altro stratagemma per cavarmela, ma non riuscii a pensare a nulla. Poi, improvvisamente, il segno di sottolineatura scritto dalla prof alla lavagna mi dette un’idea. Presi un gessetto e mi abbassai con la schiena (per fortuna ero giovane, ora mi avrebbe fatto male) fino alla parte inferiore della lavagna e continuai la linea della sottolineatura, ispessendola ed allungandola verso l’alto in modo da portarla verso il centro della lavagna e farne una strada romana, con tanto di basolato.
“Al termine delle guerre puniche - esordii – e precisamente nel 148 a.C….”
Feci una breve pausa in modo da assicurarmi l’ascolto della prof ed inoltre da rendermi conto di essere proprio io a parlare, fino ad un attimo prima non ci avrei creduto. Continuai orgogliosamente:
“…in Veneto arrivò la via Costumia!”
“See… la via dei costumi di carnevale!” rise una voce in fondo all’aula.
Rise anche la prof, che mi rimandò al posto con un insperato 6 (sia pure meno meno) visto che, disse, evidentemente non aveva ben spiegato le guerre puniche e la via Postumia (“e non Costumia”, rimarcò) la doveva ancora spiegare.

 

IL SEGNALE

Alfonso non era un generale ma si trovava ugualmente dietro la collina. Non era la prima volta che doveva usare un fucile, ma questa volta sapeva che sarebbe stato differente.
Da bravo cacciatore di solito utilizzava l'arma per abbattere qualche capo di selvaggina: era stata infatti la passione per la caccia che anni addietro gli aveva messo l'arma in mano.
Questa volta però era diverso. Sapeva che doveva sparare ad un preciso segnale, che gli doveva giungere all'ora prestabilita. Inspirò profondamente e scrutò il cielo limpido di agosto.
Consultò l'orologio: mancava ormai veramente poco alle 08.30, l'ora X. Cominciò a pensare: cosa sarebbe successo se il sofisticato marchingegno non avesse ricevuto il segnale come stabilito? Dapprima ebbe un impulso di rifiuto, ma poi i suoi pensieri cominciarono a mettere a fuoco la situazione. Suo fratello sicuramente non avrebbe avuto futuro se avesse fallito. Le sue mani iniziarono a tremare leggermente, poi più intensamente. Aggrottò le sopracciglia, inspirò profondamente e riprese il controllo di se stesso. Imbracciò il fucile che teneva a tracolla, tolse la sicura e puntò l'arma verso il cielo, come alla ricerca di un nemico invisibile. Poi, senza spostare l'arma, girò la testa verso quella scatola che ormai non sapeva se odiare oppure amare. Da lei doveva scaturire un segnale che poteva cambiare il futuro non solo di suo fratello, ma dell'intera umanità. Mancavano ormai pochi secondi. Iniziò mentalmente un conto alla rovescia... 10... 9... 8... - Dio non ce la faccio! - 7... 6... - Devi farcela! - si disse 5... 4... Ormai il sudore gli colava davanti al viso, non sapeva se ciò fosse dovuto al sole di agosto oppure all'emozione del momento, ma ormai importava poco. 3... 2... 1... un istante di pausa... niente! Pochi attimi di ansia, mille pensieri concentrati in un batter di ciglia, lampi di luce e figure nella mente... forse aveva sbagliato a contare, forse l'esperimento era fallito. Tremò a quest'ultimo pensiero ed alle sue terribili conseguenze. Rifece il conto alla rovescia. 5... 4... 3... 2... 1... ze... Tre colpi secchi lo fecero sussultare. Era il segnale! Rimase un secondo a fissare come inebetito la grossa scatola di legno che aveva emesso quei tre colpi, come a voler sincerarsi che provenissero effettivamente da lì. Poi si riprese. Ora toccava a lui. Riprese fiato e poi, con apparente calma, senza prendere nemmeno la mira, sparò.
Il rumore della deflagrazione si spanse tutt'intorno per qualche chilometro. Stormi d'uccelli s'innalzarono in volo spaventati in uno spolverio di piume, qualche timida lepre s'infilò precipitosamente nella tana, poi, una volta spenta l'eco dello sparo, un silenzio irreale piombò tra le colline bolognesi.
"Vittoria!" Alfonso sapeva che suo fratello Guglielmo sarebbe stato fiero di lui. Era certo che a 2400 metri di distanza, dall'altra parte della collina dei Celestini e precisamente dalla finestra del suo laboratorio a Villa Griffone di Pontecchio, Guglielmo aveva sentito lo sparo e probabilmente stava esultando. Il colpo di fucile sparato in aria era la risposta all'insolito segnale. Forse in quel momento nessuno dei due si rese conto della portata di ciò che avevano fatto, in quel lontano 1895: ma i fratelli Alfonso e Guglielmo Marconi ne sarebbero per sempre stati orgogliosi. Quel segnale, i tre colpi che rappresentano la lettera "S" in alfabeto  Morse,  erano in realtà un segnale radio: si trattava della prima trasmissione del telegrafo senza fili.

 

PIANETA TERRA

C'era una volta il pianeta Terra. Ora non c'è più.
In quel tempo la tecnologia aveva avuto un incremento notevole rispetto alle epoche precedenti e ciò aveva rivoluzionato il modo di combattere. Ormai da tempo le guerre si combattevano a tavolino, come fare una partita a scacchi. Ogni mossa studiata dal proprio quartier generale si rifletteva istantaneamente a tutte le unità controllate dalla nazione. La guerra fredda era solamente un triste e lontano ricordo, ma le nazioni continuavano in maniera sommersa lo sviluppo ed il test delle proprie tecnologie. L'atollo di Oigres era una delle unità di difesa/attacco nucleare disseminate nell'Oceano Atlantico durante la corsa agli armamenti. Concepita durante gli anni più bui della guerra fredda, aveva in dotazione decine di missili a testata nucleare con una gittata intercontinentale. Tutte le attrezzature della base erano state rinnovate più volte nel corso degli anni e quindi la base stessa era quanto di più avanzato ci potesse essere a livello tecnologico, anche se era già passato qualche anno dall’ultimo aggiornamento della struttura.
Non aveva un nome ma solo una sigla: MDF576 ed era un chip intelligente che lavorava con centinaia di altri suoi simili nelle schede del grosso elaboratore della base di Oigres. Il suo lavoro era semplice: doveva bloccarsi all'arrivo di un impulso negativo. Essendo un controller intelligente sapeva quanto era importante la sua funzione: l'elaboratore era infatti collegato ai dispositivi di lancio dei missili nucleari e quindi guai se non avesse svolto nel migliore dei modi il suo delicato compito. Il chip svolgeva da anni quel lavoro, non si lamentava mai, d'altronde era tenuto in un ambiente a temperatura controllata: riscaldato d'inverno e rinfrescato d'estate. Che dire poi dell'alimentazione? Era stabilizzata con precisione. Chi stava meglio di lui? Quell'estate però aveva fatto un caldo inusuale e purtroppo la ventola di raffreddamento con il passare degli anni aveva cominciato e divenire inefficiente, rumorosa, ed a perdere giri. Fu così che proprio in una delle giornate più torride di agosto si fermò. Il chip MDF576 cominciò a patire il caldo come non aveva mai sofferto nei vari anni di servizio. E surriscaldandosi si accorse che stava avvicinandosi alla temperatura di fusione del silicio, il semiconduttore di cui era costituito. Si rese conto che stava morendo. Le forze gli venivano sempre meno e proprio in questo frangente arrivò un impulso negativo. Riuscì a malapena a bloccarlo, ma subito dopo ne arrivò un altro e poi un altro ancora. Ormai stremato il chip riuscì a bloccare il secondo impulso, ma non il terzo. Mentre moriva con la fusione del suo cuore di silicio, vide con orrore l'impulso diramarsi per le miriadi di fili, attraversare varie schede e centinaia di chip, per poi giungere ai dispositivi di lancio che si attivarono in sequenza.
C'era una volta il pianeta Terra. Ora non c'è più.

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